Dire. Parlare. Esprimersi, pronunciare, comunicare, riferire, annunciare, proclamare. Oppure gridare e sussurrare, urlare e bisbigliare, giurare e spergiurare, accusare e difendere, lodare e biasimare, balbettare, delirare, chiacchierare, sproloquiare, ciarlare, blaterare, calunniare, mentire, adulare, criticare, denigrare, consigliare, suggerire, confessare, testimoniare ecc. ecc. Quanti sono, in italiano, i verbi che indicano l'azione di aprire la bocca e di muovere la lingua per esprimere, attraverso parole, frasi e discorsi, il nostro pensiero? Tanti, tantissimi. Anche in greco esistevano molti verbi che indicavano l'azione del parlare, l'attività che, come dice Aristotele, più di ogni altra distingueva l'uomo dagli animali. Così come in italiano, anche in greco il significato di questi verbi aveva una gamma molto ampia e variata: si andava dai più neutri, come per esempio i semplici "dire" o "parlare" (legein, eipein, phanai, phtheggesthai, frazein ecc.), a quelli più ricchi di sfumature, tanto positive quanto negative, come per esempio la coppia "lodare" e "biasimare" (epainein e psegein). Questa duplice valenza - positiva e negativa - dell'azione di parlare non è soltanto una delle sue caratteristiche più evidenti, ma è soprattutto quella più gravida di conseguenze. C'è infatti differenza tra dire il vero e dire il falso, così come non sono affatto uguali un personaggio sincero e uno bugiardo; allo stesso modo, non si può mettere sullo stesso piano chi "parla" (dicendo cose concrete, ancorate alla realtà) e chi invece "straparla" (dicendo cose assurde, prive di senso). Nelle mani di un abile scrittore - come un poeta comico, esperto del mestiere e consapevole della sua influenza nei confronti del pubblico - le parole che pronunciano i suoi personaggi non sono mai innocenti: dire, di un uomo politico, che "mente", che "chiacchiera", che "calunnia", "blatera", "gracchia", "urla", "insulta" e così via non è certo la stessa cosa che dire semplicemente, di lui, che "parla". Allo stesso modo, dire, di un filosofo, che "delira" o "sproloquia", oppure che le sue parole sono "fumose" equivale a metterne in dubbio proprio quelle stesse qualità che dovrebbero farne un vero filosofo. O ancora, il personaggio femminile che è capace soltanto di "chiacchierare" è la dimostrazione concreta che l'esclusione della donna dal dibattito politico ateniese possiede un suo fondamento logico; viceversa, la donna che "parla" davvero mostra che una tale preclusione non è altro che un pregiudizio infondato. In sostanza, la scelta del verbo da parte del poeta contiene già di per sé in primo luogo un giudizio sull'eloquenza del personaggio per quello che egli rappresenta all'interno della trama comica; in seconda battuta, attraverso il giudizio sul modo in cui il personaggio viene visto dal poeta comico, è possibile cogliere il sistema di presupposti culturali sui quali questo giudizio si fonda. In altre parole, un semplice verbo può mostrarci come l'eloquenza del personaggio fosse giudicata dagli altri personaggi della commedia, dall'autore della commedia, dal pubblico - e quindi, in definitiva, dalla società ateniese nel suo complesso. La risposta alle domande che seguono (qual è l'uso che Aristofane fa delle parole dei suoi personaggi? quali sono i personaggi che, nelle sue commedie, "parlano" davvero, dicendo qualcosa di serio, di vero, di reale, di concreto? quali sono i personaggi che, invece di "parlare" "davvero", si limitano a chiacchierare, blaterare, delirare, gridare, ululare ecc.? è possibile che alcuni di questi personaggi formino un gruppo così compatto da far pensare che il giudizio del poeta esca dai confini della singola persona per diventare il marchio che bolla un'intera categoria?) costituisce l'oggetto di questo studio.

Beta, S. (2004). Il linguaggio nelle commedie di Aristofane. Parola positiva e parola negativa nella commedia antica. ROMA : Accademia nazionale dei Lincei.

Il linguaggio nelle commedie di Aristofane. Parola positiva e parola negativa nella commedia antica

BETA, SIMONE
2004-01-01

Abstract

Dire. Parlare. Esprimersi, pronunciare, comunicare, riferire, annunciare, proclamare. Oppure gridare e sussurrare, urlare e bisbigliare, giurare e spergiurare, accusare e difendere, lodare e biasimare, balbettare, delirare, chiacchierare, sproloquiare, ciarlare, blaterare, calunniare, mentire, adulare, criticare, denigrare, consigliare, suggerire, confessare, testimoniare ecc. ecc. Quanti sono, in italiano, i verbi che indicano l'azione di aprire la bocca e di muovere la lingua per esprimere, attraverso parole, frasi e discorsi, il nostro pensiero? Tanti, tantissimi. Anche in greco esistevano molti verbi che indicavano l'azione del parlare, l'attività che, come dice Aristotele, più di ogni altra distingueva l'uomo dagli animali. Così come in italiano, anche in greco il significato di questi verbi aveva una gamma molto ampia e variata: si andava dai più neutri, come per esempio i semplici "dire" o "parlare" (legein, eipein, phanai, phtheggesthai, frazein ecc.), a quelli più ricchi di sfumature, tanto positive quanto negative, come per esempio la coppia "lodare" e "biasimare" (epainein e psegein). Questa duplice valenza - positiva e negativa - dell'azione di parlare non è soltanto una delle sue caratteristiche più evidenti, ma è soprattutto quella più gravida di conseguenze. C'è infatti differenza tra dire il vero e dire il falso, così come non sono affatto uguali un personaggio sincero e uno bugiardo; allo stesso modo, non si può mettere sullo stesso piano chi "parla" (dicendo cose concrete, ancorate alla realtà) e chi invece "straparla" (dicendo cose assurde, prive di senso). Nelle mani di un abile scrittore - come un poeta comico, esperto del mestiere e consapevole della sua influenza nei confronti del pubblico - le parole che pronunciano i suoi personaggi non sono mai innocenti: dire, di un uomo politico, che "mente", che "chiacchiera", che "calunnia", "blatera", "gracchia", "urla", "insulta" e così via non è certo la stessa cosa che dire semplicemente, di lui, che "parla". Allo stesso modo, dire, di un filosofo, che "delira" o "sproloquia", oppure che le sue parole sono "fumose" equivale a metterne in dubbio proprio quelle stesse qualità che dovrebbero farne un vero filosofo. O ancora, il personaggio femminile che è capace soltanto di "chiacchierare" è la dimostrazione concreta che l'esclusione della donna dal dibattito politico ateniese possiede un suo fondamento logico; viceversa, la donna che "parla" davvero mostra che una tale preclusione non è altro che un pregiudizio infondato. In sostanza, la scelta del verbo da parte del poeta contiene già di per sé in primo luogo un giudizio sull'eloquenza del personaggio per quello che egli rappresenta all'interno della trama comica; in seconda battuta, attraverso il giudizio sul modo in cui il personaggio viene visto dal poeta comico, è possibile cogliere il sistema di presupposti culturali sui quali questo giudizio si fonda. In altre parole, un semplice verbo può mostrarci come l'eloquenza del personaggio fosse giudicata dagli altri personaggi della commedia, dall'autore della commedia, dal pubblico - e quindi, in definitiva, dalla società ateniese nel suo complesso. La risposta alle domande che seguono (qual è l'uso che Aristofane fa delle parole dei suoi personaggi? quali sono i personaggi che, nelle sue commedie, "parlano" davvero, dicendo qualcosa di serio, di vero, di reale, di concreto? quali sono i personaggi che, invece di "parlare" "davvero", si limitano a chiacchierare, blaterare, delirare, gridare, ululare ecc.? è possibile che alcuni di questi personaggi formino un gruppo così compatto da far pensare che il giudizio del poeta esca dai confini della singola persona per diventare il marchio che bolla un'intera categoria?) costituisce l'oggetto di questo studio.
2004
9788821809132
Beta, S. (2004). Il linguaggio nelle commedie di Aristofane. Parola positiva e parola negativa nella commedia antica. ROMA : Accademia nazionale dei Lincei.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11365/16424