«Ma che cosa sia la bellezza, non so» scriveva Albrecht Dürer (1471-1528), il più grande artista tedesco del Rinascimento, e autore di un importante Trattato sulle proporzioni umane, pubblicato poco dopo la sua morte. A questa confessione di ignoranza, tuttavia, Dürer si affrettava ad aggiungere queste parole: «che cosa sia la bellezza lo sa soltanto Dio». Due secoli e mezzo più tardi, nell’opera più importante per la storia della riflessione estetica occidentale, la Critica della facoltà di giudizio (1790) di Immanuel Kant, troviamo scritto invece che la bel- lezza «vale solo per gli uomini», cioè «per esseri che sono animali, ma anche razionali, non però in quanto semplicemente razionali (per esempio gli spiriti), ma nello stesso tempo animali» (§ 5). E Dio, non essendo anche animale, non sarebbe in grado di apprezzare la bellezza. Ci troviamo davanti, così, due estremi opposti: da un lato Dürer, e con lui una lunga tradizione teologica e metafisica: solo Dio può sapere che cosa sia la bellezza, mentre gli esseri umani non possono saperlo; dall’altro Kant, e con lui altri pensatori, trattatisti e artisti moderni: la bellezza è qualcosa di riservato agli animali umani, mentre Dio, o altri presunti esseri spirituali, non possono saperne niente. Che cosa è successo nei due secoli e mezzo che separano queste due posizioni tanto diverse? Che cosa ha portato a questo cambiamento così radicale nella concezione della bellezza? In generale, si può dire che la bellezza ha progressivamente perduto il suo carattere metafisico – vale a dire il suo essere pensata come proprietà oggettiva del mondo o delle cose, che consentiva al “bello” di essere associato al “vero” e al “buono” – per essere concepita sempre più come una proprietà della sensibilità umana. La bellezza, per la prima volta a partire dal Settecento viene intesa come un sentimento che solo gli esseri umani potrebbero provare. Neppure per Kant, infatti, sappiamo propriamente che cosa sia la bellezza: non possiamo identificare dei concetti, delle regole, delle proprietà oggettive che la definiscano. Per questo neppure un Dio onnisciente, inteso come intelletto infinito e perfetto, potrebbe sapere che cos’è. Ma noi esseri umani, essendo non solo razionali ma anche esseri sensibili (cioè anche animali), possiamo esperirla come un particolare sentimento di piacere, sia quando la troviamo nella natura, sia quando l’ammiriamo nelle opere d’arte. Nelle pagine che seguono, abbiamo raccolto alcune testimonianze che ci paiono utili per comprendere le ragioni di questa travagliata trasformazione. Non solo, infatti, la bellezza perde progressivamente il suo carattere metafisico, ma, per lo più, anche il suo carattere oggettivo: vale a dire che, a cominciare proprio da artisti e teorici dell’arte come Dürer, si comincia a pensare che non esistano rapporti matematici, proporzioni, regole, proprietà oggettive universali che per- mettono di definire la bellezza o di formulare precetti che permettano di ottener- la infallibilmente. Ciò non significa che la bellezza finisca per essere considerata qualcosa di semplicemente soggettivo, variabile da individuo a individuo, al pari di qualsiasi altra sensazione o preferenza personale (come sentire caldo o freddo o avere un debole per la cioccolata o il caffè), ma che essa deve essere compresa come un peculiare tipo di esperienza.

Arte e filosofia / Velotti, Stefano. - (2019), pp. 950-975.

Arte e filosofia

STEFANO VELOTTI
2019

Abstract

«Ma che cosa sia la bellezza, non so» scriveva Albrecht Dürer (1471-1528), il più grande artista tedesco del Rinascimento, e autore di un importante Trattato sulle proporzioni umane, pubblicato poco dopo la sua morte. A questa confessione di ignoranza, tuttavia, Dürer si affrettava ad aggiungere queste parole: «che cosa sia la bellezza lo sa soltanto Dio». Due secoli e mezzo più tardi, nell’opera più importante per la storia della riflessione estetica occidentale, la Critica della facoltà di giudizio (1790) di Immanuel Kant, troviamo scritto invece che la bel- lezza «vale solo per gli uomini», cioè «per esseri che sono animali, ma anche razionali, non però in quanto semplicemente razionali (per esempio gli spiriti), ma nello stesso tempo animali» (§ 5). E Dio, non essendo anche animale, non sarebbe in grado di apprezzare la bellezza. Ci troviamo davanti, così, due estremi opposti: da un lato Dürer, e con lui una lunga tradizione teologica e metafisica: solo Dio può sapere che cosa sia la bellezza, mentre gli esseri umani non possono saperlo; dall’altro Kant, e con lui altri pensatori, trattatisti e artisti moderni: la bellezza è qualcosa di riservato agli animali umani, mentre Dio, o altri presunti esseri spirituali, non possono saperne niente. Che cosa è successo nei due secoli e mezzo che separano queste due posizioni tanto diverse? Che cosa ha portato a questo cambiamento così radicale nella concezione della bellezza? In generale, si può dire che la bellezza ha progressivamente perduto il suo carattere metafisico – vale a dire il suo essere pensata come proprietà oggettiva del mondo o delle cose, che consentiva al “bello” di essere associato al “vero” e al “buono” – per essere concepita sempre più come una proprietà della sensibilità umana. La bellezza, per la prima volta a partire dal Settecento viene intesa come un sentimento che solo gli esseri umani potrebbero provare. Neppure per Kant, infatti, sappiamo propriamente che cosa sia la bellezza: non possiamo identificare dei concetti, delle regole, delle proprietà oggettive che la definiscano. Per questo neppure un Dio onnisciente, inteso come intelletto infinito e perfetto, potrebbe sapere che cos’è. Ma noi esseri umani, essendo non solo razionali ma anche esseri sensibili (cioè anche animali), possiamo esperirla come un particolare sentimento di piacere, sia quando la troviamo nella natura, sia quando l’ammiriamo nelle opere d’arte. Nelle pagine che seguono, abbiamo raccolto alcune testimonianze che ci paiono utili per comprendere le ragioni di questa travagliata trasformazione. Non solo, infatti, la bellezza perde progressivamente il suo carattere metafisico, ma, per lo più, anche il suo carattere oggettivo: vale a dire che, a cominciare proprio da artisti e teorici dell’arte come Dürer, si comincia a pensare che non esistano rapporti matematici, proporzioni, regole, proprietà oggettive universali che per- mettono di definire la bellezza o di formulare precetti che permettano di ottener- la infallibilmente. Ciò non significa che la bellezza finisca per essere considerata qualcosa di semplicemente soggettivo, variabile da individuo a individuo, al pari di qualsiasi altra sensazione o preferenza personale (come sentire caldo o freddo o avere un debole per la cioccolata o il caffè), ma che essa deve essere compresa come un peculiare tipo di esperienza.
2019
Gli strumenti del pensiero. La filosofia dai presocratici ai nuovi media.
9788842116899
Storia della filosofia moderna; didattica della filosofia; arte
02 Pubblicazione su volume::02a Capitolo o Articolo
Arte e filosofia / Velotti, Stefano. - (2019), pp. 950-975.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1243233
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