Il lavoro riflette sulla complessa ampiezza di implicazioni derivanti dalla riconosciuta esistenza, in seno all’ordinamento giuridico dell’Unione europea, di un immanente principio di divieto all’abuso del diritto, capace di investire anche la materia tributaria. Se inteso nella sua dimensione “oggettiva”, l’esaminata sentenza Part Service offre la testimonianza dell’ulteriore tappa evolutiva scandita dalla Corte di Lussemburgo verso l’univoca enucleazione del concetto comunitario di <<pratica abusiva>>. Il più genuino e profondo interesse destato dal pronunciamento della Corte di Giustizia oggetto d’esame si innesta, tuttavia,nel rapporto tra referente concettuale (siccome espresso dal diritto vivente dell’Unione europea) e sua applicazione secondo i modelli attuativi interni ai singoli Stati membri. La collocazione della Suprema Corte di Cassazione nazionale nella posizione di soggetto rimettente ha, proprio nel caso esaminato, un significato di non lieve portata, in quanto rivela, implicitamente, la propensione all’immediata e diretta applicazione, nel giudizio domestico di legittimità, del concetto di <<abuso>> estrapolato dalla giurisprudenza comunitaria. Il tutto – si badi – secondo una logica che sembrerebbe prescindere totalmente dall’esigenza di un formalizzato e materiale recepimento di nuova ed appropriata strumentazione giuridica nel quadro della legislazione tributaria interna. Il fuoco dell’indagine è pertanto condotto sul non facile tema dell’automatica e diretta applicabilità, in ambito nazionale, degli esiti interpretativi di stampo creativo forgiati (nel caso di specie, nell’ambito della disciplina impositiva dell’Imposta sul valore aggiunto) dalla Corte di Giustizia. Immanente, quindi, alle singole disposizioni che costellano l’architettura dell’ordinamento dell’Unione europea (e, quindi, anche alle relative disposizioni impositive armonizzate, come quelle relative al campo Iva), il divieto citato si manifesterebbe nella fase interpretativa e si riverserebbe, “incapsulato” e latente nella disciplina nazionale di recepimento, nel tessuto ordinamentale dello Stato. In questo quadro, sarebbe affidato alla fase ermeneutica, ovverosia al processo intellettuale che distilla la norma partendo dalla disposizione, l’effetto di modellare i meccanismi impositivi domestici (per lo meno – per le ragioni che sono esplicitate – quelli di matrice comunitaria) in maniera tale da prevenirne ogni impiego “abusivo”. Insomma – ed ecco qui il punto cruciale dello scritto – il veicolo di propagazione del modello comunitario di “abuso” dovrebbe rintracciarsi nella sua astratta elevazione al rango di principio interpretativo; ciò che gli guadagnerebbe la capacità d’“iniettarsi”, more automatico, all’interno dei differenti ordinamenti nazionali, senza alcuna necessità di una specifica strumentazione di recepimento. Sebbene evocatrice di una primautè “a tutto tondo” del diritto comunitario, codesta tesi viene messa in forte dubbio nello scritto, siccome afflitta da un evidente profilo di fragilità. Pretende, infatti, di non tener conto dell’inevitabile mutamento d’assetto che, nel filtrare dall’ordinamento comunitario a quello interno, il canone ermeneutico in questione sconta. I valori giuridici di riferimento vengono, in tale passaggio, inesorabilmente modificati. In questo senso, mutano, in primo luogo, gli strumenti ed i metodi stessi dell’interpretazione, i quali, in un sistema formalistico di civil law qual è il nostro, si spogliano di molta della malleabilità sfoggiata nella dimensione comunitaria di origine. Di conseguenza, gli spazi di manovra concessi all’attività ermeneutica si restringono alquanto e, con essi, anche la possibilità che, in assenza di una specifica disposizione di contrasto a ciò preordinata, le <<pratiche abusive>> siano neutralizzate in via interpretativa. Muta, inoltre, lo stesso terreno assiologico su cui il fenomeno abusivo va ad innestarsi. E’ appena il caso di osservare, infatti, come la materia tributaria risulti, a livello nazionale, coperta dal principio di legalità di cui all’art. 23 Cost., al quale s’associa coerentemente una esigenza (non solo di democraticità, ma anche) di certezza dei rapporti giuridici. Ed è proprio tale certezza, assieme al principio di tutela dell’affidamento del singolo nell’assetto normativo espresso dall’ordinamento interno, che dovrebbe vieppiù scoraggiare ogni aspirazione alla immediata precipitazione del modello dell’abuso del diritto nella disciplina nazionale.

Il modello comunitario della "pratica abusiva" in ambito fiscale: elementi costitutivi essenziali e forza di condizionamento rispetto alle scelte legislative ed interpretative nazionali

POGGIOLI, MARCELLO
2008

Abstract

Il lavoro riflette sulla complessa ampiezza di implicazioni derivanti dalla riconosciuta esistenza, in seno all’ordinamento giuridico dell’Unione europea, di un immanente principio di divieto all’abuso del diritto, capace di investire anche la materia tributaria. Se inteso nella sua dimensione “oggettiva”, l’esaminata sentenza Part Service offre la testimonianza dell’ulteriore tappa evolutiva scandita dalla Corte di Lussemburgo verso l’univoca enucleazione del concetto comunitario di <>. Il più genuino e profondo interesse destato dal pronunciamento della Corte di Giustizia oggetto d’esame si innesta, tuttavia,nel rapporto tra referente concettuale (siccome espresso dal diritto vivente dell’Unione europea) e sua applicazione secondo i modelli attuativi interni ai singoli Stati membri. La collocazione della Suprema Corte di Cassazione nazionale nella posizione di soggetto rimettente ha, proprio nel caso esaminato, un significato di non lieve portata, in quanto rivela, implicitamente, la propensione all’immediata e diretta applicazione, nel giudizio domestico di legittimità, del concetto di <> estrapolato dalla giurisprudenza comunitaria. Il tutto – si badi – secondo una logica che sembrerebbe prescindere totalmente dall’esigenza di un formalizzato e materiale recepimento di nuova ed appropriata strumentazione giuridica nel quadro della legislazione tributaria interna. Il fuoco dell’indagine è pertanto condotto sul non facile tema dell’automatica e diretta applicabilità, in ambito nazionale, degli esiti interpretativi di stampo creativo forgiati (nel caso di specie, nell’ambito della disciplina impositiva dell’Imposta sul valore aggiunto) dalla Corte di Giustizia. Immanente, quindi, alle singole disposizioni che costellano l’architettura dell’ordinamento dell’Unione europea (e, quindi, anche alle relative disposizioni impositive armonizzate, come quelle relative al campo Iva), il divieto citato si manifesterebbe nella fase interpretativa e si riverserebbe, “incapsulato” e latente nella disciplina nazionale di recepimento, nel tessuto ordinamentale dello Stato. In questo quadro, sarebbe affidato alla fase ermeneutica, ovverosia al processo intellettuale che distilla la norma partendo dalla disposizione, l’effetto di modellare i meccanismi impositivi domestici (per lo meno – per le ragioni che sono esplicitate – quelli di matrice comunitaria) in maniera tale da prevenirne ogni impiego “abusivo”. Insomma – ed ecco qui il punto cruciale dello scritto – il veicolo di propagazione del modello comunitario di “abuso” dovrebbe rintracciarsi nella sua astratta elevazione al rango di principio interpretativo; ciò che gli guadagnerebbe la capacità d’“iniettarsi”, more automatico, all’interno dei differenti ordinamenti nazionali, senza alcuna necessità di una specifica strumentazione di recepimento. Sebbene evocatrice di una primautè “a tutto tondo” del diritto comunitario, codesta tesi viene messa in forte dubbio nello scritto, siccome afflitta da un evidente profilo di fragilità. Pretende, infatti, di non tener conto dell’inevitabile mutamento d’assetto che, nel filtrare dall’ordinamento comunitario a quello interno, il canone ermeneutico in questione sconta. I valori giuridici di riferimento vengono, in tale passaggio, inesorabilmente modificati. In questo senso, mutano, in primo luogo, gli strumenti ed i metodi stessi dell’interpretazione, i quali, in un sistema formalistico di civil law qual è il nostro, si spogliano di molta della malleabilità sfoggiata nella dimensione comunitaria di origine. Di conseguenza, gli spazi di manovra concessi all’attività ermeneutica si restringono alquanto e, con essi, anche la possibilità che, in assenza di una specifica disposizione di contrasto a ciò preordinata, le <> siano neutralizzate in via interpretativa. Muta, inoltre, lo stesso terreno assiologico su cui il fenomeno abusivo va ad innestarsi. E’ appena il caso di osservare, infatti, come la materia tributaria risulti, a livello nazionale, coperta dal principio di legalità di cui all’art. 23 Cost., al quale s’associa coerentemente una esigenza (non solo di democraticità, ma anche) di certezza dei rapporti giuridici. Ed è proprio tale certezza, assieme al principio di tutela dell’affidamento del singolo nell’assetto normativo espresso dall’ordinamento interno, che dovrebbe vieppiù scoraggiare ogni aspirazione alla immediata precipitazione del modello dell’abuso del diritto nella disciplina nazionale.
2008
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/2268459
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