Questo lavoro affronta i concetti di verità e bene in riferimento alla posizione che l’uomo della nascente modernità assume rispetto a Dio, ai suoi simili e alla natura. Così al regnum hominis celebrato da Pico della Mirandola, che esalta l’uomo come un «grande miracolo», si è accostato il “canto” di Giordano Bruno sull’infinito che ammalia e spaurisce l’uomo smarrito nell’universo. Ne segue la necessità di riflettere sulla relazione finito-infinito e sulla capacità dell’uomo di cogliere questa relazione: comprendere questo connubio, infatti, significa per l’uomo prendere coscienza della propria condizione ed elevarsi, attraverso la conoscenza della verità, verso il sommo bene e, per conseguenza, verso la felicità. Ciò sembra rievocare la distinzione operata da Pico della Mirandola tra la felicità naturale, a cui perviene il filosofo grazie alla sua attività razionale, e la felicità sovrannaturale, quella che avverrà nei cieli e di cui la prima è solo l’ombra. «La vera e compiuta felicità ci riconduce e ci guida alla contemplazione di Dio che è il bene assoluto […] e alla perfetta unione con quel principio da cui scaturimmo. […] A questa l’uomo non può venire, può essere solo guidato, perciò il Cristo che è la stessa felicità disse di sé: “nessuno viene a me se non lo ha condotto il Padre mio”. Le bestie e ciò che è inferiore all’uomo non possono arrivare da sole né essere condotte a quella felicità. Perciò solo l’uomo e l’angelo sono creati per quella felicità vera. Il vapore può salire in alto, ma solo attratto dai raggi del sole; la pietra e ogni sostanza corpulenta non può né accogliere in alcun modo un raggio né essere da esso sollevata verso l’alto. Chiamiamo grazia questo raggio, questa forza divina, quest’influsso, poiché rende l’uomo e l’angelo grati a Dio». La vera felicità consiste, dunque, «nell’essere uno spirito solo con Dio per possedere Dio, non in noi, ma in sé, conoscendolo così come ne siamo conosciuti». Da ciò si evince come sia importante ed insostituibile la religione. A tal proposito, basti pensare che la stessa filosofia - l’unica che ci guida verso la felicità naturale - è «principio di religione». D’altra parte, per Pico non esiste «filosofia che allontani l’uomo dalla religione». Ma l’uomo, quel «grande miracolo» di cui parla Pico nella sua Oratio, non occupa quella posizione mediana di cui parlerà più tardi Pascal. L’uomo di Pico sta sì in mezzo tra le bestie e gli angeli, ma può addirittura superare questi ultimi. Assistiamo così, con l’Umanesimo ed il Rinascimento, al trionfo di quel regnum hominis che spinge l’uomo a considerarsi la creatura privilegiata del creato, colui che, dalla contemplazione della natura, non avverte la sua finitudine e la sua miseria, bensì solo la sua grandezza. Si comincia così a creare uno vero e proprio dissidio tra la coscienza religiosa che, reggendosi su quel senso di colpa originaria che è immagine della miseria dell’uomo senza Dio, tende a spingerlo a lavorare unicamente per la salvezza della sua anima, e la coscienza umana che, invece, tende ad abbandonarsi alla gioia di vivere e a fare delle passioni umane il centro di ogni moto dell’animo. In questo clima di dissidio tra senso dell’umano e senso del divino, si fa sempre più strada quell’idea di individualità che esalta l’uomo e la sua opera, aprendo altresì il varco insormontabile tra Dio, la natura e l’uomo. Così, scrive Chabod, «quel senso dell’uomo e della sua potenza, prima rivelatosi come intuizione poetica e artistica, venne elaborato sul terreno della logica, coordinato in un nuovo sistema che ebbe appunto nell’uomo, nel microcosmo, il suo centro». In questo contesto storico-culturale comincia inoltre ad affermarsi l’immagine del mondo che è stato scoperto infinito e privo di qualsiasi punto di riferimento. Di qui la riflessione sull’infinito di cui Giordano Bruno, per esempio, si serve per liberare la ragione umana dal «carcere» di un cielo chiuso e limitato, aprendo in tal modo la strada ad un nuovo modo di filosofare, in cui sarà possibile far coincidere nella distinzione l’infinità di Dio con l’infinità del mondo: ovvero l’infinità trascendente, intesa come mens supra omnia, unità piena e perfetta, che è complicatio, in quanto complica in sé tutto ciò che si viene esplicando nell'universo; e l’infinità immanente, intesa come mens insita omnibus, che è explicatio, in quanto è il dispiegarsi dell'unità divina nella molteplicità infinita di esseri finiti. Ora, se l’infinità (complicatio) che implica tutte le cose in Dio non potrà essere conosciuta dalla ragione finita, ma appresa solo tramite fede; l’infinità (explicatio) che si svolge nell’universo potrà essere invece conosciuta grazie ai segni matematici dotati - come aveva affermato Niccolò Cusano - di una «certezza incorruttibile». Tale «certezza» ci aiuterà a cogliere la coincidenza tra il massimo ed il minimo ed accostarci in maniera simbolica al massimo assoluto, di per sé inconoscibile. Di qui l’importanza della coincidentia oppositorum, teorizzata dal Cusano e ripresa da Bruno e da Pascal, per scoprire il mezzo idoneo a distinguere e ordinare i diversi tipi d’infinità, i quali permetteranno di chiarire i rapporti tra Dio e l’universo non certo grazie alla ratio, bensì all’intellectus. Se, infatti, la ragione di tipo aristotelico, fondata sul principio d’identità e di non contraddizione, non riuscirà a comprendere come la linea possa essere retta, triangolo, circolo e sfera, poiché tra queste figure geometriche e la linea, considerate secondo la quantità, non c’è proporzione; di contro, per l’intelletto sarà evidente la loro coincidenza. Solo l'intelletto è dunque capace di conoscere l'infinità e cogliere il massimo infinito, e questo perché - come affermerà Descartes - noi concepiamo l’essere, perché la nozione di infinito è in noi prima di quella di finito; noi concepiamo, cioè, l’essere infinito con chiarezza ed evidenza. Pertanto, l’idea di Dio come essere infinito è per noi sommamente vera e non importa se non possiamo comprendere l’infinito o le innumerevoli cose che vi si trovano: infatti, appartiene alla natura dell’infinito essere incomprensibile a noi esseri finiti. Sicché, da un lato, è vero che tra il finito e l’infinito non potrà mai esserci proporzione alcuna; dall’altro lato, è pur vero che l’uomo, essere finito, ha in sé la capacità di accostarsi all’infinito, grazie all’infinitezza del suo pensiero su cui l’etica moderna farà affidamento, per ricostruire quella dignitas hominis che sembra ormai dispersa negli spazi infiniti di un universo senza limiti. All’elaborazione di un’etica che abbia come scopo principale l’educazione del pensiero si dedicheranno sia Descartes sia Pascal: per entrambi i filosofi, infatti, l’educazione del pensiero non presenta soltanto una valenza meramente gnoseologica, ma ricade positivamente anche e soprattutto sulla sfera dell’attività pratica. Per imparare a giudicare bene, ovverosia a distinguere il bene dal male, che è lo scopo ultimo della morale, occorre muovere i primi passi proprio dal pensiero così come insegna la Logique de Port-Royal. , occorre muovere i primi passi proprio dal pensiero così come insegna la Logique de Port-Royal. Quest’opera, scritta da Arnauld e da Nicole tra le mura di Port-Royal, ove aleggiava lo spirito di Agostino e circolavano le idee di Descartes e di Pascal, mira ad insegnare una «nuova» logica che sancisce il primato della ragione pratica sulla ragione teoretica. Ora, tale primato non esclude né sminuisce l’indiscusso ruolo della ragione in ambito scientifico, ma sottolinea quanto sia importante il ricorso alla ragione in materia di morale. Solo un uso corretto della ragione può aiutare gli uomini a scoprire le cause dei falsi giudizi e conseguentemente dei cattivi ragionamenti. La ragione, dunque, entra a pieno titolo nell’ambito della morale come guida indispensabile per l’uomo che voglia raggiungere la sapientia universalis, che coincide con la virtù e che fa dell’uomo un’autentica imago Dei. Ecco perché Descartes, modello di riferimento per gli autori della Logique, ha fatto della morale il punto di arrivo del suo sistema filosofico, il cui scopo finale consiste nel raggiungimento del più alto grado della saggezza, che corrisponde «alla più alta e perfetta morale». Di qui il ruolo «salvifico» della filosofia, quale studio della saggezza, cioè la conoscenza perfetta di tutte le cose a cui l’uomo può pervenire per poi servirsene nella vita.

Il soggetto all'alba della modernità

ROMEO, MARIA VITA
2012-01-01

Abstract

Questo lavoro affronta i concetti di verità e bene in riferimento alla posizione che l’uomo della nascente modernità assume rispetto a Dio, ai suoi simili e alla natura. Così al regnum hominis celebrato da Pico della Mirandola, che esalta l’uomo come un «grande miracolo», si è accostato il “canto” di Giordano Bruno sull’infinito che ammalia e spaurisce l’uomo smarrito nell’universo. Ne segue la necessità di riflettere sulla relazione finito-infinito e sulla capacità dell’uomo di cogliere questa relazione: comprendere questo connubio, infatti, significa per l’uomo prendere coscienza della propria condizione ed elevarsi, attraverso la conoscenza della verità, verso il sommo bene e, per conseguenza, verso la felicità. Ciò sembra rievocare la distinzione operata da Pico della Mirandola tra la felicità naturale, a cui perviene il filosofo grazie alla sua attività razionale, e la felicità sovrannaturale, quella che avverrà nei cieli e di cui la prima è solo l’ombra. «La vera e compiuta felicità ci riconduce e ci guida alla contemplazione di Dio che è il bene assoluto […] e alla perfetta unione con quel principio da cui scaturimmo. […] A questa l’uomo non può venire, può essere solo guidato, perciò il Cristo che è la stessa felicità disse di sé: “nessuno viene a me se non lo ha condotto il Padre mio”. Le bestie e ciò che è inferiore all’uomo non possono arrivare da sole né essere condotte a quella felicità. Perciò solo l’uomo e l’angelo sono creati per quella felicità vera. Il vapore può salire in alto, ma solo attratto dai raggi del sole; la pietra e ogni sostanza corpulenta non può né accogliere in alcun modo un raggio né essere da esso sollevata verso l’alto. Chiamiamo grazia questo raggio, questa forza divina, quest’influsso, poiché rende l’uomo e l’angelo grati a Dio». La vera felicità consiste, dunque, «nell’essere uno spirito solo con Dio per possedere Dio, non in noi, ma in sé, conoscendolo così come ne siamo conosciuti». Da ciò si evince come sia importante ed insostituibile la religione. A tal proposito, basti pensare che la stessa filosofia - l’unica che ci guida verso la felicità naturale - è «principio di religione». D’altra parte, per Pico non esiste «filosofia che allontani l’uomo dalla religione». Ma l’uomo, quel «grande miracolo» di cui parla Pico nella sua Oratio, non occupa quella posizione mediana di cui parlerà più tardi Pascal. L’uomo di Pico sta sì in mezzo tra le bestie e gli angeli, ma può addirittura superare questi ultimi. Assistiamo così, con l’Umanesimo ed il Rinascimento, al trionfo di quel regnum hominis che spinge l’uomo a considerarsi la creatura privilegiata del creato, colui che, dalla contemplazione della natura, non avverte la sua finitudine e la sua miseria, bensì solo la sua grandezza. Si comincia così a creare uno vero e proprio dissidio tra la coscienza religiosa che, reggendosi su quel senso di colpa originaria che è immagine della miseria dell’uomo senza Dio, tende a spingerlo a lavorare unicamente per la salvezza della sua anima, e la coscienza umana che, invece, tende ad abbandonarsi alla gioia di vivere e a fare delle passioni umane il centro di ogni moto dell’animo. In questo clima di dissidio tra senso dell’umano e senso del divino, si fa sempre più strada quell’idea di individualità che esalta l’uomo e la sua opera, aprendo altresì il varco insormontabile tra Dio, la natura e l’uomo. Così, scrive Chabod, «quel senso dell’uomo e della sua potenza, prima rivelatosi come intuizione poetica e artistica, venne elaborato sul terreno della logica, coordinato in un nuovo sistema che ebbe appunto nell’uomo, nel microcosmo, il suo centro». In questo contesto storico-culturale comincia inoltre ad affermarsi l’immagine del mondo che è stato scoperto infinito e privo di qualsiasi punto di riferimento. Di qui la riflessione sull’infinito di cui Giordano Bruno, per esempio, si serve per liberare la ragione umana dal «carcere» di un cielo chiuso e limitato, aprendo in tal modo la strada ad un nuovo modo di filosofare, in cui sarà possibile far coincidere nella distinzione l’infinità di Dio con l’infinità del mondo: ovvero l’infinità trascendente, intesa come mens supra omnia, unità piena e perfetta, che è complicatio, in quanto complica in sé tutto ciò che si viene esplicando nell'universo; e l’infinità immanente, intesa come mens insita omnibus, che è explicatio, in quanto è il dispiegarsi dell'unità divina nella molteplicità infinita di esseri finiti. Ora, se l’infinità (complicatio) che implica tutte le cose in Dio non potrà essere conosciuta dalla ragione finita, ma appresa solo tramite fede; l’infinità (explicatio) che si svolge nell’universo potrà essere invece conosciuta grazie ai segni matematici dotati - come aveva affermato Niccolò Cusano - di una «certezza incorruttibile». Tale «certezza» ci aiuterà a cogliere la coincidenza tra il massimo ed il minimo ed accostarci in maniera simbolica al massimo assoluto, di per sé inconoscibile. Di qui l’importanza della coincidentia oppositorum, teorizzata dal Cusano e ripresa da Bruno e da Pascal, per scoprire il mezzo idoneo a distinguere e ordinare i diversi tipi d’infinità, i quali permetteranno di chiarire i rapporti tra Dio e l’universo non certo grazie alla ratio, bensì all’intellectus. Se, infatti, la ragione di tipo aristotelico, fondata sul principio d’identità e di non contraddizione, non riuscirà a comprendere come la linea possa essere retta, triangolo, circolo e sfera, poiché tra queste figure geometriche e la linea, considerate secondo la quantità, non c’è proporzione; di contro, per l’intelletto sarà evidente la loro coincidenza. Solo l'intelletto è dunque capace di conoscere l'infinità e cogliere il massimo infinito, e questo perché - come affermerà Descartes - noi concepiamo l’essere, perché la nozione di infinito è in noi prima di quella di finito; noi concepiamo, cioè, l’essere infinito con chiarezza ed evidenza. Pertanto, l’idea di Dio come essere infinito è per noi sommamente vera e non importa se non possiamo comprendere l’infinito o le innumerevoli cose che vi si trovano: infatti, appartiene alla natura dell’infinito essere incomprensibile a noi esseri finiti. Sicché, da un lato, è vero che tra il finito e l’infinito non potrà mai esserci proporzione alcuna; dall’altro lato, è pur vero che l’uomo, essere finito, ha in sé la capacità di accostarsi all’infinito, grazie all’infinitezza del suo pensiero su cui l’etica moderna farà affidamento, per ricostruire quella dignitas hominis che sembra ormai dispersa negli spazi infiniti di un universo senza limiti. All’elaborazione di un’etica che abbia come scopo principale l’educazione del pensiero si dedicheranno sia Descartes sia Pascal: per entrambi i filosofi, infatti, l’educazione del pensiero non presenta soltanto una valenza meramente gnoseologica, ma ricade positivamente anche e soprattutto sulla sfera dell’attività pratica. Per imparare a giudicare bene, ovverosia a distinguere il bene dal male, che è lo scopo ultimo della morale, occorre muovere i primi passi proprio dal pensiero così come insegna la Logique de Port-Royal. , occorre muovere i primi passi proprio dal pensiero così come insegna la Logique de Port-Royal. Quest’opera, scritta da Arnauld e da Nicole tra le mura di Port-Royal, ove aleggiava lo spirito di Agostino e circolavano le idee di Descartes e di Pascal, mira ad insegnare una «nuova» logica che sancisce il primato della ragione pratica sulla ragione teoretica. Ora, tale primato non esclude né sminuisce l’indiscusso ruolo della ragione in ambito scientifico, ma sottolinea quanto sia importante il ricorso alla ragione in materia di morale. Solo un uso corretto della ragione può aiutare gli uomini a scoprire le cause dei falsi giudizi e conseguentemente dei cattivi ragionamenti. La ragione, dunque, entra a pieno titolo nell’ambito della morale come guida indispensabile per l’uomo che voglia raggiungere la sapientia universalis, che coincide con la virtù e che fa dell’uomo un’autentica imago Dei. Ecco perché Descartes, modello di riferimento per gli autori della Logique, ha fatto della morale il punto di arrivo del suo sistema filosofico, il cui scopo finale consiste nel raggiungimento del più alto grado della saggezza, che corrisponde «alla più alta e perfetta morale». Di qui il ruolo «salvifico» della filosofia, quale studio della saggezza, cioè la conoscenza perfetta di tutte le cose a cui l’uomo può pervenire per poi servirsene nella vita.
2012
978-88-66000-64-8
Uomo; libertà; felicità; Infinito; Finito; Verità
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