A stimolare il progetto di una ricerca in questa direzione sono state le analisi di Thompson e di Hobsbawm, entrambe convergenti nel richiamare all’attenzione il fenomeno della perdita di ruolo delle donne nel passaggio dalla lotta di popolo alla lotta di classe. Si tratta di un modello interpretativo applicabile anche alla realtà italiana? Mi sono chiesta, e se sì, a cosa imputare una trasformazione così radicale? A una prima verifica dei dati, la conferma della diagnosi risulta inequivocabile. Dare una risposta al secondo quesito è invece più complesso. In sostanza si ha l’impressione che le radici del fenomeno trovino alimento in una aporia di fondo della cultura del movimento operaio che (ed è sempre Hobsbawm ad osservarlo) proprio sul versante della cosiddetta “questione femminile” mostra la sua contraddizione più clamorosa. Mentre infatti sul piano ideologico si prospetta la piena parità fra uomini e donne, nella pratica si pongono continui ostacoli alla partecipazione delle operaie alle organizzazioni e alle lotte del proletariato. E se l’iconografia è indubbiamente una fonte preziosa di indagine in tal senso, anche il linguaggio stesso della propaganda socialista lascia pochi dubbi in proposito. Molto schematicamente possiamo dire che la rappresentazione dell’immagine femminile che negli anni Ottanta sembra attagliarsi perfettamente a quella della “unruly woman” subisce una graduale trasformazione nel tempo, fino a tradursi nel proprio opposto: nella costruzione cioè dello stereotipo (confezionato al tavolino, a dispetto di qualsiasi evidenza) della vittima impotente dello sfruttamento capitalistico, destinata ad affermarsi nel decennio successivo. Sia in un caso che nell’altro, d’altra parte, le donne appaiono inadatte per “natura” alla militanza nelle file del movimento operaio organizzato che, sulla falsariga della codifica positivista delle identità sessuali, si viene strutturando ad immagine e somiglianza degli attributi della mascolinità. Ed è su questa base che si esibiscono giustificazioni posticce alla graduale defezione delle operaie da organizzazioni di mestiere costantemente sorde alle loro rivendicazioni, in corrispondenza di un atteggiamento agli inizi apertamente ostile nei confronti del lavoro delle donne in fabbrica e successivamente – come ha osservato Brigitte Studer - di una sua accettazione sotto forma di lavoro “accessorio”, occasionale e sottopagato.

"SEBBEN CHE SIAMO DONNE": IL MOVIMENTO OPERAIO E LA QUESTIONE DELLE LAVORATRICI / M. CASALINI. - In: PASSATO E PRESENTE. - ISSN 1120-0650. - STAMPA. - 45:(1998), pp. 113-134.

"SEBBEN CHE SIAMO DONNE": IL MOVIMENTO OPERAIO E LA QUESTIONE DELLE LAVORATRICI

CASALINI, MARIA
1998

Abstract

A stimolare il progetto di una ricerca in questa direzione sono state le analisi di Thompson e di Hobsbawm, entrambe convergenti nel richiamare all’attenzione il fenomeno della perdita di ruolo delle donne nel passaggio dalla lotta di popolo alla lotta di classe. Si tratta di un modello interpretativo applicabile anche alla realtà italiana? Mi sono chiesta, e se sì, a cosa imputare una trasformazione così radicale? A una prima verifica dei dati, la conferma della diagnosi risulta inequivocabile. Dare una risposta al secondo quesito è invece più complesso. In sostanza si ha l’impressione che le radici del fenomeno trovino alimento in una aporia di fondo della cultura del movimento operaio che (ed è sempre Hobsbawm ad osservarlo) proprio sul versante della cosiddetta “questione femminile” mostra la sua contraddizione più clamorosa. Mentre infatti sul piano ideologico si prospetta la piena parità fra uomini e donne, nella pratica si pongono continui ostacoli alla partecipazione delle operaie alle organizzazioni e alle lotte del proletariato. E se l’iconografia è indubbiamente una fonte preziosa di indagine in tal senso, anche il linguaggio stesso della propaganda socialista lascia pochi dubbi in proposito. Molto schematicamente possiamo dire che la rappresentazione dell’immagine femminile che negli anni Ottanta sembra attagliarsi perfettamente a quella della “unruly woman” subisce una graduale trasformazione nel tempo, fino a tradursi nel proprio opposto: nella costruzione cioè dello stereotipo (confezionato al tavolino, a dispetto di qualsiasi evidenza) della vittima impotente dello sfruttamento capitalistico, destinata ad affermarsi nel decennio successivo. Sia in un caso che nell’altro, d’altra parte, le donne appaiono inadatte per “natura” alla militanza nelle file del movimento operaio organizzato che, sulla falsariga della codifica positivista delle identità sessuali, si viene strutturando ad immagine e somiglianza degli attributi della mascolinità. Ed è su questa base che si esibiscono giustificazioni posticce alla graduale defezione delle operaie da organizzazioni di mestiere costantemente sorde alle loro rivendicazioni, in corrispondenza di un atteggiamento agli inizi apertamente ostile nei confronti del lavoro delle donne in fabbrica e successivamente – come ha osservato Brigitte Studer - di una sua accettazione sotto forma di lavoro “accessorio”, occasionale e sottopagato.
1998
45
113
134
M. CASALINI
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