Zitiervorschlag: Gasparo Gozzi (Hrsg.): "Numero XXXI", in: Gli Osservatori veneti, Vol.1\31 (1761-06-09), S. 561-565, ediert in: Ertler, Klaus-Dieter / Fuchs, Alexandra (Hrsg.): Die "Spectators" im internationalen Kontext. Digitale Edition, Graz 2011- . hdl.handle.net/11471/513.20.3592 [aufgerufen am: ].


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No XXXI.

A dì 9 giugno 1762.

Ebene 2► Ebene 3► Allegorie► Un tempo buio e strano, sì ch’io n’andava per un cupo deserto vôto d’uomini e d’animali senza saper dove io n’andassi, mi faceva temere il momento di rompermi il collo, cadendo giù da qualche altissimo dirupo, o d’affogarmi in qualche pozzanghera o lago che innanzi agli occhi non m’apparisse. Per giunta alla caligine che m’ingombrava la vista, mi udía fischiare negli orecchi un orribile strepito di venti, che percotendomi anche nel restante del corpo, qua mi faceano aggirare, colà cadere con una mano in terra, tanto che mi parea che di sotto mi fossero quasi tronchi i nervi delle ginocchia; e non sapendo più che mi fare, tremandomi il cuore come una foglia, mi posi a sedere sul terreno, attendendo che qualche raggio di luce apparisse. Fra tante calamità un solo conforto mi rinvigoriva l’animo, e diceva fra me: “Egli mi sembra oggimai d’essere pervenuto al colmo de’mali miei; e quando la ruota di fortuna è giunta a segno tale ch’essa non possa dar la volta allo ingiù, di necessità avviene, che il corso suo si muti alla fine, e che coloro i quali erano poco prima vicini alla loro estrema rovina, a poco a poco ritornino allo insù, o almeno non sieno per cadere nel minacciato precipizio”. Mentre ch’io diceva così fatte parole nell’animo mio alquanto riconfortato, egli mi parve che la furia del vento cominciasse alquanto a cessare; quella grassa nebbia, che poco prima tenevami gli occhi occupati, si diradava alcun poco, e già avresti detto che fosse giunta quell’ora in cui nè giorno si può dire che sia, nè notte, per modo ch’io potea, aguzzando le ciglia, qualche cosa scoprire. Chi potrebbe mai credere quello ch’io dirò? Non era la solitudine, in ch’io mi ritrovava, nè alpestra, nè incolta come lo spavento me l’avea fatta immaginare, ma un verde prato sotto a’piedi formava un tappeto di minutissime erbe e di mescolati fiori d’ogni colore, vario e dilettevole [562] a vedersi: ed essendo oggimai allargatasi intorno a me la luce, vedea che stendevasi la prateria a lunghissimi confini, e qua e colà alzavansi con bellissimo ordine disposti molti arboscelli, poco più alti che la statura dell’uomo, da’quali così un poco alzando le mani, si potea cogliere ogni qualità di frutto, il cui odore, portato da soavi zeffiri, incitava la voglia a spiccarne. “Oh!” diceva io allora, “vedi che pure non era il caso mio cotanto disperato, quanto la conceputa paura me lo facea credere. Venuta è la luce; e comecchè io mi ritrovi qui solo, avrò pure di che poter vivere fino a tanto che camminando esca fuori di qua, e ritrovi qualche abitato luogo, dov’io, oltre al piacere di rivedere genti, avrò ancora quello di raccontar loro questa piacevole e maravigliosa novella.” Ma che? egli non fu anche vero fra poco che quivi io mi ritrovassi solo, come mi parea d’essere: imperciocchè da ogni lato sbucarono uomini e femmine, e si diedero qua e colà chi a voler per lo prato ricogliere fiori, e chi alzando le mani tentava di spiccare dalle piante le colorite polpe delle frutte. Che pensar si può che fosse di me, quand’io vidi che i poverelli tutti s’affaticavano invano, e che quando uno si chinava per cogliere un fiore, questo non altrimenti che se fosse stato una picciola vescica ripiena di aria, facea uno scoppietto e svaniva; e se v’avea chi alzasse le mani per ispiccare o pera o pesca, l’albero che poco prima appena oltrepassava l’umano capo, come s’egli avesse avuta nel midollo l’energia di una molla, dirizzavasi da sè stesso allo insù tanto alto, che non avrebbero più raggiunte le frutte quegli antichi e favolosi giganti, de’quali si racconta che movessero la guerra a Giove. Ansavano i miserabili popoli, e grondava loro la fronte di sudore; ma per tutto ciò non si stancavano mai di tentar la loro ventura, e benchè sempre si trovassero gabbati, ricominciavano la medesima tresca senza mai darsi posa. E comecchè ogni volta si ritrovassero ingannati, fatto prima un poco di mal viso, come suol fare chi viene truffato, poco stavano a ripigliare la consueta aria della faccia, e parea che dicessero: “Non ci stanchiamo, chè bene ce ne avverrà”. Comecchè la maraviglia mi tenesse parte impacciato e parte il dolore; perciocchè quello che accadeva altrui, vedeva benissimo che fra poco sarebbe a me medesimo accaduto; pure io non potea fare a meno di non ridere; a vedere che tanto riusciva il tentativo vano a coloro i quali senza pensiero si avventavano a cogliere, quanto a molti altri i quali studiavano prima infinite cautele, e misuravano i passi pei giungere alla fine del desiderio loro. Finalmente stimolato anch’io dalla fame, mi levai in piè dal luogo dove stava a sedere, e volli far prova se la fortuna mia fosse stata migliore di quella degli altri. Mi avvenne quello stesso che a tutti gli altri. Io potei bene alzar le mani ora ad una ficaia, ora ad un susino, or ad un melo, che sempre n’andarono fino alle stelle; e quel che più strano mi parve, si fu che fino un mellonaio, come s’esso avesse avuto l’ale, in un batter d’occhio s’alzò, e portò seco i poponi suoi in aria, sì che mi stavano molte braccia sopra il capo pendenti. O fosse la fame o la novità di quella faccenda che mi stimolasse, mi cadde in pensiero che non sempre la dovesse essere a quel modo; onde cominciai anch’io ad invasarmi come tutti gli altri, e a correre qua e colà all’impazzata, a voler cogliere da tutti i lati, e sempre ne ritornava indietro con le mani vuote. Pure in fine non potendo più sofferire tanta fatica, dolente a morte, maladiceva la passata notte che con l’ombre sue non m’avesse fatto rompere il collo, [563] piuttosto che condurmi alla vanità delle cose ch’io mi vedea allora dinanzi. E poichè la doglia m’ebbe fatto un gran nodo al cuore, e tale ch’io non lo potea sofferire tacendo, volli sfogarmi; ma per non far parere che fossi anch’io pazzo come tutti gli altri, mi diedi con le mie parole a correggere le circostanti turbe del mio stesso difetto in questa forma: “Oh ciechi! oh insensati! a che perdete voi il tempo vostro? Non vedete voi quale è la natura di questo terreno ingannevole, in cui non germoglia altro frutto che apparente, il quale con una magna vistosità vi si mostra, vi fa ardere di desiderio, aprire le gole, e poi vi lascia pieni di fame? Spensierati! cercate un suolo migliore, un benefico clima. Volete voi vivere di vesciche?” In tal guisa ragionava io a quelle genti, le quali, poichè m’ebbero udito attentamente, divenute in faccia del colore della creta, con altissime strida e con atti veramente di crudelissimo cordoglio, diedero mano ad alcune coltella, e stavano in atto di ferirsi da sè medesime. Quando s’intese a romoreggiare per l’aria un altissimo strepito come di tuono, e dietro a quello si empiè l’aria d’un disusato splendore, e finalmente si vide dall’alto discendere una giovane fanciulla così aggraziata e di tanto belle e così mirabili attrattive, che non s’avrebbe voluto vedere altro che lei: tanta era la sua formosità ed il suo garbo. Ella non discese però fino in sul terreno; ma standosi così sospesa in aria tanto che alcuno non potesse a lei accostarsi, come colei che volea solamente essere veduta e ammirata, rivoltasi con un mal piglio verso di me, cominciò a rampognarmi con queste parole: “Così dunque rispetterai, tu, o lingua di vipera, il regno mio, e in questa guisa favellerai a’miei popoli! Sai tu forse dove tu sei, o con quali ordini e leggi il paese mio si governi? E sai tu che, senza avvedertene, fin dagli anni tuoi primi fosti vassallo mio e soggetto all’impero mio e alla mia autorità? Alza il mento e riconosci la tua reina. Alzalo, io sono la Speranza. Questi sono i terreni miei, queste le mie abitazioni e i paesi. So io bene, o mio giurato nemico, quante volte tu hai fino a qui desiderato di fuggirtene dalle mie contrade, e cercato di abitare ne’paesi di Fortuna; ma affatícati a possa tua, tu sei nato per abitare in questi miei luoghi, e in vano farai ogni prova d’andartene.” – A così fatta sentenza poco mancò ch’io non tramortissi, e m’abbondò al cuore tanto travaglio, che mi sgorgarono copiose lagrime dagli occhi, e con tanta furia i miei singhiozzi rompevano l’aria, che si sarebbero uditi da lontano. Ma la Speranza, la quale non comporta di vedere visi addolorati, fatta in un subito di me compassionevole, con quella sua dolce e garbata maniera con cui prende all’esca ogni uomo, prese di nuovo a ragionare con altro stile: “O figliuol mio e nutricato sempre col mio latte, di che ti quereli tu ora, e perchè ti sembra cotanto amara la condizione dell’essere tra i miei? Io ti prego, ricòrdati d’essere uomo, e pensa a quello che le cose sono in effetto, e non all’apparenza di quelle. Tu ti duoli di non essere vassallo di Fortuna, e ti rammarichi grandemente di non aver posseduto mai veruno de’suoi beni. Ma tu non sai che senza di me que’medesimi abitatori di quel suo tanto esaltato regno, se non foss’io che gli tenessi desti e consolati, sarebbero in continuo rammarico e in dolore senza fine? Non hai tu forse udito a dire più volte che gli animi umani sono dalla insaziabilità sempre allargati? Non avrebbe Giove medesimo, non che Fortuna, di che potergli satollare, se io non mettessi loro innanzi qualche cosa, e quasi sospendendola ad un filo, non gli [564] traessi dietro a me con grandissimo desiderio per coglierla. I beni che dà Fortuna, quando gli ha conceduti, più non si riconoscono da chi gli possiede, e l’una condizione sempre desidera l’altra. Oltre di che, credi tu, s’io non fossi al mondo, ma solamente Fortuna spargesse i beni suoi, che le genti avrebbero quegli svegliati intelletti e capaci di quelle invenzioni che fanno? Io sola, io sola sono colei che facendo sperare a cui grandissima gloria ed a cui utilità, ho aperta la comunicazione de’mari, accese le faville di tante nobilissime dottrine, e fatti al mondo que’tanti ed innumerabili benefizi che si veggono. Se sola Fortuna fosse la reggitrice delle cose, che credi tu che ne avverrebbe? Una parte degli uomini da lei ciecamente beneficata, non curandosi di altro che dell’ozio e dei diletti, acquisterebbe un sempiterno torpore d’ossa e di nervi, che appena si leverebbe mai da’materassi o da sedere; e l’altra datasi alla disperazione terminerebbe la vita sua o lanciandosi col capo allo ingiù da qualche alta montagna, o affogandosi nell’acque. Ma io pietosa dell’umana generazione, rinfrancando gli spiriti con le mie promesse, tutti mantengo in vita, in consolazione e in buona fede d’aver a possedere un giorno quello che vogliono. Che s’eglino finalmente muoiono, e come si suol dire di coloro che vivono col mio spirito in corpo, se ne vanno con le mani vote, io non so quello che si portino meno seco, quando spariscono dal mondo, che gli altri a’quali è stata la Fortuna propizia. Se non che talora i vassalli miei se ne vanno coll’aversi talora acquistato nome e chiarezza per le fatiche da loro fatte seguendomi, e gli altri sono intenebrati da un’oscura caligine nella memoria degli uomini. Se tu ti duoli di questi miei fiori e di questi miei frutti, perchè gli uni ne vanno in fumo e gli altri si dilungano dalle tue mani, che n’importa a te, quando il solo odore degli uni e degli altri è atto a mantenerti in vita? Vedi, vedi intorno a te quanti venerandi e canuti vecchioni non si sono mai d’altro pasciuti, e tuttavia con questo solo nutrimento son giunti a questa maturissima età rubizzi, sani e di buona voglia: nè perchè sieno invecchiati, cessano tuttavia di correre dietro alle mie calcagna e di sperare qualche cosa; se non altro di vivere qualche anno, ch’è la più gioconda grazia che uomo possa avere, e quella che Fortuna certamente non potrebbe concedere altrui. E finalmente quando sono pervenuti al termine in cui la vita si chiude, non hanno il cordoglio d’aver a lasciare i beni miei, laddove all’incontro l’avere a forza ad abbandonare quelli di Fortuna, è la miseria di tutte l’altre maggiore. Chétati, o figliuolo, non lagrimare. Fa’tuo conto, quanto fino al presente hai corso della tua vita, che non è così breve, e pensa che se tu se’giunto fino a qui vivo, e forse ancora di miglior umore che i fortunati, non altrimenti sarà da qui in poi per quel restante che ancora t’avanza.” Così detto, guardandomi con un’amorevole occhiata, la si disperse nell’aria e se n’andò a’fatti suoi. Sono io ancora nel suo deserto? Veggomi io ancora intorno que’fiori e que’frutti? Nol so. Ma dico bene che quantunque mi sembri ch’ella non favellasse affatto fuor di ragione, non sa l’animo mio appagarsi delle sue parole; e quanto più penso alla sua diceria, tanto più mi pare ch’essa abbia del sofistico, e un certo che di voglia del darla ad intendere altrui che non mi garba [565] affatto. Ricordomi sempre di quel proverbio: Meglio è fringuello in man, che in frasca tordo: e vorrei piuttosto avere da Fortuna il fringuello, che correre dietro al tordo della Speranza. Ma che s’ha a fare? Ad ogni modo, come mi diss’ella, io son giunto con gli anni molto bene avanti, e mangio e vivo e beo e vesto panni. Molte volte ho avuto di che ridere anch’io quanto un altro, e talvolta rido tuttavia; sicchè ad ogni modo è quel medesimo, e non voglio darmi degl’impacci del Rosso. ◀Allegorie ◀Ebene 3 ◀Ebene 2 ◀Ebene 1